La crisi del controllo di qualità delle pubblicazioni scientifiche messa a nudo da Covid-19

Quattro secoli di peer review non bastano a garantire la fiducia dei cittadini

di Lucia Lissi, Daniela Berardinelli, Antonio Zapparata, Corrado Minetti, Margherita Venturi, Mario Bove – La Lampada delle Scienze

Il leitmotiv della carriera del ricercatore scientifico contemporaneo si potrebbe riassumere in una semplice frase: pubblicare tanto, possibilmente su riviste scientifiche prestigiose, e in tempi rapidi. Tuttavia, come accade in altri aspetti della vita, fare le cose per bene e velocemente spesso sono due obiettivi contrastanti, che possono portare a effetti indesiderati come la ritrattazione di uno studio (ovvero il ritiro di un articolo scientifico dagli archivi della rivista in cui è stato pubblicato).

La pressione a pubblicare rapidamente i risultati della ricerca è aumentata drasticamente ai tempi di COVID-19, tanto che due tra le più importanti riviste scientifiche in ambito medico sono state recentemente al centro di due ritrattazioni eccellenti, che hanno subito fatto il giro del mondo.

Protagonisti della vicenda un importante studio pubblicato su The Lancetsull’idrossiclorochina, un farmaco antimalarico in fase di sperimentazione contro l’infezione da nuovo coronavirus, e uno studio sull’utilizzo di medicinali antipertensivi per il trattamento di COVID-19, ritirato dal New England Journal of Medicine poche ore dopo la ritrattazione su The Lancet.

In entrambi i casi i dati erano stati raccolti e analizzati dalla stessa compagnia, e alcuni tra gli stessi autori degli articoli avevano chiesto dei chiarimenti (mai arrivati) sull’affidabilità dei dati stessi. Ciò ha portato alla veloce ritrattazione degli studi.

Al clamore scientifico si è rapidamente affiancata l’indignazione dell’opinione pubblica, sempre più sfiduciata verso il mondo della scienza: le fondamenta della torre d’avorio in cui gli scienziati a lungo si sono trincerati paiono sgretolarsi in piena emergenza sanitaria.

Tuttavia, sebbene l’accaduto sia il frutto dell’aumentata pressione a pubblicare dovuta al particolare momento storico, parte del problema potrebbe anche risiedere nell’efficacia del metodo di controllo e validazione dei risultati della ricerca scientifica.

Al centro del metodo di controllo e validazione dei risultati di ricerca c’è il protocollo della “revisione tra pari” applicato dalle riviste scientifiche.

La revisione tra pari: un modello di qualità che ha funzionato per quasi quattro secoli

La revisione tra pari (in inglese peer review) è il procedimento di valutazione a cui vengono sottoposti i risultati di uno studio scientifico prima di essere pubblicati.

Come funziona la peer review? Gli scienziati scrivono un articolo sui risultati della loro ricerca e lo inviano a una delle riviste scientifiche del settore di interesse Quando l’articolo giunge in redazione, l’editor-in-chief (una sorta di caporedattore) gestisce in prima battuta l’articolo che, qualora rispetti determinati canoni, passerà nelle mani di un senior editor che provvederà ad invitare almeno due revisori (i referees) affinché possano verificare il soddisfacimento degli standard richiesti dalla rivista stessa e, più in generale, la bontà e il rigore scientifico del lavoro.

Sulla base del giudizio dei revisori, l’editor potrà decidere di pubblicare l’articolo, oppure di proporre agli autori delle revisioni, o respingerlo. 

La peer review è una pratica che viene utilizzata da più di 350 anni, inaugurata per la prima volta dalla Royal Society nel 1665 con il primo numero della rivista Philosophical transactions. Un metodo longevo e apparentemente molto ben strutturato, tanto che ad oggi possiamo distinguere diversi tipi di revisione:

  • A singolo cieco(in inglese single blind), la più comune, prevede che l’autore non sappia l’identità dei revisori;
  • A doppio cieco(double blind), in cui i revisori non conoscono l’identità dell’autore e viceversa;
  • Aperta(open), la forma più trasparente che prevede che revisori e autori siano identificati e che i commenti al lavoro siano online, pubblici, e a disposizione di tutti i lettori;
  • Informata(informed), una modalità che prevede la combinazione di più fonti di informazione e non solo del giudizio dei revisori.

Il nobile scopo di questo processo dovrebbe essere quello di tutelare la qualità e l’integrità delle pubblicazioni. Tuttavia la peer review non è perfetta, come dimostrato nei casi di ritrattazione sopracitati, ed è strettamente legata alle modalità con cui si “produce” la scienza oggi.

I limiti attuali della peer review.  Il parere di Riccardo Baroncelli

La revisione tra pari è un’attività non remunerata, e, se condotta seriamente, richiede tempo che il revisore spesso è costretto a ritagliarsi al di fuori di quello lavorativo.

Secondo Riccardo Baroncelli, ricercatore in biologia computazionale applicata alla patologia vegetale presso l’Università di Salamanca, esistono dei buoni motivi per cui l’attività di revisione non dovrebbe essere riconosciuta economicamente: “Un ricercatore che viene pagato per fare revisioni,- ha dichiarato Baroncelli a Laboratori Aperti –  potrebbe tendere, per un semplice fattore economico, a concentrarsi maggiormente su questo aspetto, a discapito della ricerca; il revisore di professione correrebbe così il rischio di distaccarsi dall’attualità degli studi. Infine, si potrebbero generare due fazioni, i ricercatori e i revisori, a discapito dell’attuale clima di rispetto tra i ruoli”.

Il tutto è inserito in un quadro in cui la vita del ricercatore è già assai stressata dall’elevata competitività dell’ambiente universitario, unita alle incerte prospettive di carriera. I ricercatori, inoltre, non subiscono pressioni solo in tempo di crisi. La comunità scientifica è infatti costantemente soggetta al noto concetto del ‘publish or perish’ (pubblica o muori). “Se non pubblichi non sei produttivo, se non pubblichi sei fuori dal sistema. Stando alle regole di questo gioco, vengono poi fuori quelle che sono le caratteristiche di ciascun individuo -continua Baroncelli -. Non si può pretendere che gli scienziati siano infallibili nel processo di pubblicazione delle loro ricerche, ma bisogna operare un distinguo netto tra l’errore involontario e la truffa”.

Per i non esperti diventa difficile orientare nelle informazioni

Ma qual è il ruolo della comunicazione della scienza rispetto a queste dinamiche? Oggigiorno, per un pubblico di non esperti, la difficoltà principale è sapersi orientare in una marea di informazioni spesso anche contrastanti. La comunità scientifica ha delle responsabilità riguardo il senso di sfiducia che pervade l’opinione pubblica, e per sanare questo deficit è necessario che si analizzi meglio la catena dell’informazione e della comunicazione con il pubblico non esperto.

“Quando i ricercatori scrivono un articolo – spiega Baroncelli – non lo fanno esclusivamente per loro stessi, bensì in primo luogo per informare la comunità scientifica. La storia recente dimostra che, arrivati a questo punto, si crea un gap comunicativo con l’opinione pubblica, un fenomeno simile a un telefono senza fili in cui viene a mancare la comunicazione tra due intermediari.

Se analizziamo quello che accade oggi sui mass media, mi rendo conto che dovrebbero essere i professionisti della comunicazione scientifica a trasmettere correttamente questo flusso di informazioni e non gli scienziati che, per la maggior parte, non sono formati per comunicare ad un pubblico vasto ed eterogeneo.”

Compito della divulgazione scientifica, conclude Baroncelli, è oggi quello di “trasmettere all’opinione pubblica un messaggio chiaro: i ricercatori non fanno parte di una lobby, bensì operano un vero e proprio servizio pubblico. I ricercatori seguono una rigorosa deontologia professionale nello svolgere il proprio lavoro e, quando ciò non accade, ci sono delle conseguenze professionali, talvolta drastiche. Non è raro osservare come la comunità scientifica stessa sia la prima a isolare e ad allontanare gli artefici di un’informazione fraudolenta. Sono sicuro che questo cambio di paradigma gioverebbe a ricostruire la fiducia perduta nella ricerca scientifica, specie tra i più giovani”.