Obbligati alla distanza fisica, sviluppiamo nuove reti di vicinanza sociale

Resilienza ai tempi del Coronavirus, secondo la sociologa Bruna de Marchi

di Lara De Angeli

“Sentendo parlare di focolaio avranno pensato che devono fare una grigliata”. Così il famoso Dottor Nowsdarazan, seduto incredulo nel frigo del supermercato, commenta gli assalti alle scorte alimentari.

Da questo a molti altri, i meme parlano di noi, di quello che siamo. Ci fanno alzare un attimo gli angoli della bocca ridendo di noi stessi, diventano l’infografica perfetta per raccontare la storia di un uso sbagliato delle parole in tempo di crisi.

Meme del Dottor Nowsdarazan, celebre volto della trasmissione Vite al limite su Real Time, come commento all’assalto ai supermercati

Per rallentare la corsa del contagio, ad esempio, si è sempre parlato di lontananza in termini di distanza sociale. Ma per Bruna De Marchi, sociologa presso l’Università di Bergen in Norvegia e docente del master in Giornalismo e comunicazione istituzionale della scienza di Unife, è necessario rivolgersi all’isolamento con il termine di distanza “fisica” piuttosto che sociale.

Lasciamo fuori casa le scarpe, disinfettiamo, laviamo, starnutiamo nel gomito, leviamo i guanti, soffiamo, laviamo e via da capo. Teniamo al sicuro i soggetti più fragili lasciando la spesa sul pianerottolo o la busta con i farmaci appesa al cancello. Ci riprendiamo mentre lanciamo briciole di pane all’AnatraWC e ci organizziamo in gruppi aiutando sconosciuti. Continuiamo a ridere costruendo col cartone il nostro distanziatore sociale, ma così costruiamo senza saperlo la nostra resilienza, ci adattiamo il meglio che possiamo rispetto alla minaccia. In altre parole, mentre aumentiamo la distanza fisica riduciamo la distanza sociale, “ricostruiamo – dice De Marchi – attraverso nuovi canali una società non fruibile attraverso le usuali strategie”.

Quando dalle zone d’isolamento attraverso la finestra dei media ascoltiamo quello che succede là fuori, può capitare di essere molto confusi sui tempi e i luoghi. Nelle giornate quasi uguali si perde il conto dei giorni, tutto sembra vicino e (speriamo) lontano. In questo momento la rete sociale ci ripesca e ci salva.

Daniel Aldrich, che insegna Scienze politiche e policy pubblica alla Northeastern University a Boston, studioso di resilienza delle società in pandemie e disastri naturali, afferma che “gli sforzi compiuti per rallentare la diffusione del Coronavirus dovrebbero incoraggiare il rafforzamento dei legami sociali, pur mantenendo la distanza fisica”. “Le comunità collaborative, che si supportano a vicenda, – secondo lo studioso – sono quelle che hanno più successo nel riprendersi in modo sostenibile da grandi catastrofi” e, a maggior ragione, in una pandemia come questa in cui la parola solitudine è solo seconda a quella che fa più paura.

Chiunque abbia dimenticato a lungo una pianta in un vaso troppo stretto, ha sicuramente notato quanto sia difficile contenerne le radici, che trovano sempre un buco per alimentarsi in un terreno fresco. Le nuove reti sociali che stiamo costruendo faranno lo stesso con la nostra società.

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